Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio.
- “Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio” recita un antico detto africano, e per noi è sempre stato così. Ognuno di noi appartiene alla propria famiglia e tutti siamo di tutti, nella buona e nella cattiva sorte. Viviamo le cose belle e i successi insieme, viviamo i dolori e le difficoltà insieme. Ecco perché la fine del 2022 anche io sono entrata nel tunnel del dolore al solo pensiero di dovermi separare dal nostro bambino. Si, perché Miele, come è stato subito ribattezzato da cuginetto duenne quando lo ha visto, è mio nipote. Io sono la sua zia. Quella a cui sussurra nell’orecchio “zia, ti amo lal la la” nel periodo in cui spezza le parole per ricopiare la canzoncina dello sceriffo-ffo-ffo con i baffi-fi-fi, quella che abbraccia forte fortie all’uscita dall’asilo. Semplicemente la zia che lo vede crescere da due anni e mezzo come un bambino felice ma, molto sensibile, che sta facendo del suo meglio per recuperare i traumi da rifiuto e da abbandono che si porta nella memoria più recondita.
Sono stati giorni di cordoglio, quelli in cui la notizia ci ha colpiti facendoci reagire nei modi più disparati: perdita del sonno, del ciclo, dell’appetito, della voglia di alzarsi dal letto, di andare a lavoro.
Ricordo ancora la telefonata che ho fatto alla preside per chiedere qualche giorno di permesso per capire il da farsi e per recuperare lucidità: dopo aver detto “pronto”, come un fiume in piena, ho iniziato a piangere senza riuscire a parlare. Quella giornata è impressa nella mia mente: da sola a casa, dopo aver incoraggiato, fatto forza, sorriso a tutti, pensato positivamente, ho esaurito tutte le forze piangendo. Ho scoperto in quel giorno, che il dolore emotivo diventa fisico. Ho pensato di avere un infarto: ho passato momenti di panico in cui respirare faceva talmente male che stavo in apnea. Pensavo e vedevo la scena della separazione e il mondo si fermava mentre sentivo lo strappo nel profondo delle viscere.
In quei giorni, di festa per tutti, ognuno di noi ha vissuto il dolore in modo personale, ma tutti abbiamo dovuto sorridere per Miele, spacchettare regali, sederci a tavola anche senza appetito, mandare giù pietanze improvvisate e rispondere ai suoi continui “cos’è”? -tipici di questa età- mentre il cervello andava alla velocità della luce.
Il dolore però non copre la speranza e l’amore “spera ogni cosa” o, come dico spesso io, spera anche contro speranza. Perciò è iniziata la corsa contro il tempo, le telefonate agli studi legali (tutti chiusi nel periodo festivo), il piano di sopravvivenza: lo zio che viene da lontano per giocare con Miele mentre mamma e papà scrivono, telefonano, contattano, rispondono. La nonna che prepara i pasti, la zia che intercetta conoscenze, idee, pareri, che accompagna, sostiene, spera contro speranza. Così per ciascuno di noi, man mano che le giornate passano, gli eventi si susseguono, la storia si fa sempre più complessa, i fili si ingarbugliano…
Nonostante questa storia abbia dell’assurdo, sia contro legge, calpesti i diritti umani di un bambino, tante porte si chiudono. La TV che ha tanto speculato sulla notizia dell’abbandono, non è interessata al proseguo della storia perché troppo spinosa. Le associazioni che si occupano di adozioni e genitori adottivi fanno un passo indietro, i giornalisti ci pensano e ci ripensano, i profili social con grandi numeri che potrebbero aiutarci a diffondere la notizia si defilano, e così via. La lista sarebbe infinita.
Giorni di solitudine e di lotta. Lotta, per salvare un bambino. Per garantirgli un futuro, per dargli anni di serenità e stabilità che merita dopo aver rischiato la vita passando le ore dopo la sua venuta al mondo al freddo di un marciapiede anziché tra le calde braccia di mamma ascoltando il rassicurante battito del suo cuore e annusando il suo profumo.
Giorni in cui si mangia per sopravvivere, ci si veste per coprirsi, si dorme pochissimo e ci si sveglia con i “se” e con i “ma” in testa.
Giorni in cui le nostre case si sono trasformate in redazioni, la nostra famiglia è diventata un team in cui ognuno ha il suo compito: chi crea il blog, chi scrive, chi risponde ai messaggi della gente, chi cerca foto, chi monta video, chi contatta i legali.
Poi si cerca di indossare gli abiti da lavoro, la maschera con il sorriso, le parole educate per rispondere ai chi ha perso il turno di lettura, chi non trova i colori, chi si è perso il quaderno, E la vita continua in trincea.
Se chiudo gli occhi e provo a dare un’immagine a tutto questo periodo vedo una battaglia navale in un mare in tempesta. Il mal di mare, la pioggia, le onde che ci bagnano, l’equipaggio che man mano diminuisce, il timone da tenere sempre dritto, il desiderio di un porto sereno, la Luce del Faro da tenere sempre ben in vista e il sorriso di Miele che ci dà la forza per continuare a stare in piedi.